Ancora sull’avvenire delle nuove generazioni

Ormai anche i bambini sanno che le idee nuove sono sistematicamente sacrificate alle ragioni lobbistiche. Ormai tutti sanno che le nuove generazioni – per quanto motivate e piene di progetti –  sono ormai relegate ad un ruolo di retroguardia nel sistema partitico- politico italiano.  In questi giorni ho avuto modo di trascorrere le mie giornate con alcuni candidati under 3o del mio partito. Per quanto abbia avuto modo di capire, si tratta di persone nuove, cresciute nell’epoca del disicanto, molto più pratiche e funzionaliste di quanto lo fossero state quelle precedenti. Queste generazioni non hanno attraversato le nebbie inebrianti degli anni ottanta, del pensiero debole, della ricerca dell’effimero, ma neanche la caduta nichilista e autodistruttiva degli anni 90, nella quale sono in parte cresciuto. In queste nuove generazioni emerge invece qualcosa di diverso, che tradurrei nella voglia di costruire partendo da uno sguardo realista, da una teoretica funzionale. Per queste generazioni si osserva per creare, per produrre. Hanno uno sguardo meno etereo e non formano categorie aprioristiche. Sono curiosi e anti-dogmatici. Sono spiriti critici e simapticamente diffidenti. In un paese normale dovrebbero essere loro i nostri interlocutori, coloro ai quali affidare responsabilità politiche ed amministrative. In un paese normale infatti,  non a Follonica. Non in Italia. Il fondamento razionale di questa mia convinzione sta nei fatti. Queste generazioni sono cresciute in Europa, hanno studiato all’estero, guardano film in inglese, usano internet come mezzo di informazione principale e,soprattutto, non sono destinatari di interessi lobbistici, non appartengono a massonerie e non fanno parte di nessun centro di potere. Invece, con amarezza, mi dovrò rassagnare a vedere promossi nei gangli che contano, nei posti di dirigenza, i soliti cortigiani, i fiduciari del signorotto, i consiglieri malevoli e ipocriti, vecchi millantatori mascherati da borghesia illuminata. Diceva Althusser – un grande sociologo marxista e anche un pò uxoricida –  che oltre ai rapporti di produzione (salariati-padroni) esistono, e sono ben più gravi, i rapporti di riproduzione. Nei nostri sistemi autopoietici (che si creano da soli) il potere si riproduce allo scopo di autoconservare privilegi di casta, rendite baronali e feudalesimi anticostituzionali.

Allora serve una rivoluzione silenziosa, che nelle democrazie avanzate si attua col voto, con la preferenza, scegliendo chi rappresenta la reale novità. Una rivoluzione tuttavia implica una contrapposizione di valori, di vedute del mondo. Ad esempio, io non mi riconosco nel modello populista e finto dei giovani Pdl. Si tratta di uno stile che non appartiene al mio sistema di riferimento, alle mie letture, alla mia formazione. In ciò vorrei non venire etichettato come dogmatico, come qualche amico ha osservato.  Io sono heideggeriano convinto, credo nell’evento, nell’incontro. La mia ontologia è lontana chilometri dallo schematismo trascendetale di rifondazione comunista. Io divido il mondo soltanto in oppressi e oppressori.  E chi affama le nuove generazioni, le loro qualità, il loro sapere, la loro integrità morale; chi le relega a combattere una perdente battaglia di retroguardia, usandole poi come orpello per la propria vanità personale. Ecco, chi fa tutto questo, oltre ad essere un oppressore, è ai miei occhi una persona poco lungimirante e dotato di scarsa intelligenza. Perché le nuove generazioni possano tornare ad avere un ruolo in questo desolante deserto gerontocentrico. Perché un giorno, molto vicino, si riesca a dar loro fiducia, fino anche al disgusto di vederle sbagliare. Fino a quel giorno le cose non saranno ancora cambiate.

Una risposta

  1. Sottoscrivo il tuo intervento, in tutto, dalla prima riga all’ultima.
    Aggiungo solo qualche supercazzola:
    Come ben sai le nuove generazioni sono cresciute nell’epoca che ha come paradigma culturale il postmodernismo e come credo religioso il consumo. Quando si parla di postmoderno è facile assimilare il termine a relativismo. Se non ci sono più ideologie, contrapposizioni valoriali nette, si vive in un continuo divenire che si concretizza di volta in volta in eventi, ma non esiste più un centro fisso (a causa della caduta della prospettiva storicista). Ora, paradossalmente questo relativismo assurge a nuovo dogmatismo in quanto unica certezza che accogliamo a priori. La situazione di spaesamento che si produce genera percorsi che si radicano fino al nichilismo puro, o al contrario un nuovo conscio dogmatismo (l’amore per il capo, per esempio). Credo che l’unico sistema per uscire da questa trappola intellettuale sia il realitvismo cosciente, profondo e produttivo. Ovvero un relativismo che porti a nuove certezze e non (dis)illusioni. Credo che questa sia la sfida da affrontare, anche politicamente.

    Zenone

  2. condivido in particolare: “Allora serve una rivoluzione silenziosa, che nelle democrazie avanzate si attua col voto, con la preferenza, scegliendo chi rappresenta la reale novità.”

    Se le tue idee/dogmi/credenze/fregnacce ottengono i voti, saranno politicamente vincenti! Se non li ottengono restano elitarie e quindi politicamente perdenti.

    Tutto il resto per me, ma veramente tutto il resto, è cartapesta.

  3. ovviamente ancora più stupido è se la mania dell’apparire (altro che rivoluzione silenziosa!) porta voti a chi ha idee/dogmi/credenze/fregnacce diverse dalle tue. Almeno la cartapesta la sia usa per il diletto…

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